Joinrs è la job board potenziata dall'intelligenza artificiale, progettata per connettere candidati GenZ -studenti universitari e laureati con pochi anni di esperienza lavorativa- con le aziende più compatibili. Grazie alla nostra AI, supportiamo sia i job seeker che i recruiter nell'identificare le migliori opportunità, rendendo il processo di selezione più rapido ed efficiente e riducendo lo sforzo richiesto. Solo le candidature più allineate ai requisiti arrivano ai recruiter, garantendo qualità e precisione.
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Per conoscere il mondo Risorse Umane. Per chiacchierare e rubare qualche segreto del mestiere a professionisti che hanno da raccontare. Per lasciarvi ispirare. La raccolta di interviste di Joinrs a chi lavora in ambito HR nasce con questi tre obiettivi: ci auguriamo che nelle loro storie possiate trovare i consigli che cercate e la determinazione per iniziare (o proseguire) nella costruzione dei vostri obiettivi professionali. Oggi è Aurelio a condividerci il suo percorso e consigli!
La mia formazione in Psicologia del lavoro e delle organizzazioni è stata una base estremamente solida per entrare nel mondo delle risorse umane. Mi ha permesso di avere fin da subito una visione sistemica delle dinamiche organizzative, capendo non solo il "cosa" si fa nelle aziende, ma soprattutto il "perché" le persone si comportano in un certo modo, come funzionano i gruppi, cosa influisce sulla motivazione, sulla leadership, sul clima. Avere studiato questi aspetti in modo specifico mi ha dato maggiore consapevolezza nel leggere situazioni complesse e nel muovermi in contesti anche molto diversi tra loro.
Detto questo, non credo affatto che le risorse umane siano un ambito riservato solo a chi ha un background psicologico. Al contrario, penso che la contaminazione di competenze, visioni ed esperienze sia un grande valore. Tuttavia, proprio per la complessità delle dinamiche in gioco, penso sia fondamentale che chi lavora in HR, qualunque sia il suo percorso di studi, abbia affrontato almeno una formazione mirata su questi temi. Senza una base solida, il rischio è di trattare attività molto delicate (come selezione, feedback, sviluppo) con superficialità o con approcci standardizzati.
Infine, credo che una parte spesso sottovalutata, anche nei percorsi universitari, sia la formazione tecnica: strumenti digitali, analisi dei dati, capacità di usare le piattaforme in modo efficace. Sapere leggere e interpretare dati, lavorare con dashboard, usare tool collaborativi è oggi una competenza chiave. Non si tratta solo di “automatizzare”, ma di dare più tempo e spazio al lavoro che fa la differenza: quello umano, relazionale, strategico.
Il fenomeno della great resignation ha due radici principali e spesso contrastanti. Da un lato c’è una presa di coscienza, in parte simile a quella delle prime rivendicazioni sindacali: le persone oggi non cercano soltanto sicurezza o retribuzione, ma anche motivazione, crescita e senso nel lavoro. È un passaggio positivo, che però mette in difficoltà i datori di lavoro abituati a non confrontarsi con queste richieste e che ora si trovano spiazzati da un’arma potentissima: le dimissioni e la scarsità di personale disponibile. A questo livello si aggiunge anche un gap generazionale: comprendere le nuove aspettative non è semplice per chi ha vissuto il lavoro con logiche molto diverse.
Dall’altro lato, però, esiste un aspetto problematico: aspettative spesso irrealistiche alimentate da iperconnessione e social. La vita “staged” degli influencer crea un modello fuorviante in cui tutto sembra perfetto, sempre nuovo, sempre stimolante. Ciò genera insoddisfazione cronica e difficoltà a distinguere realtà da finzione, con impatti negativi su autostima e motivazione. È come se ci fossimo abituati a frasi fatte del tipo “molla tutto e segui la tua passione”, dimenticando che anche lavorare con serietà e continuità può essere una scelta consapevole e fonte di soddisfazione.
Per questo vedo la great resignation come un’escalation di un doppio limite: da una parte, la resistenza delle aziende a riconoscere necessità nuove e modi diversi di lavorare; dall’altra, la difficoltà dei lavoratori ad accettare che l’impresa abbia anche vincoli reali e che, a un certo punto, occorre decidere una strada e impegnarsi davvero.
Il quiet quitting, invece, rappresenta un passo ulteriore: non solo si rinuncia a crescere, ma si sceglie di restare in una zona grigia di impegno minimo. È scorretto verso il datore, ma soprattutto verso se stessi, perché significa abbassare lo sguardo e ridursi a “fare solo quello che viene detto”, rinunciando a pensiero critico e passione.
Penso che oggi parlare di equilibrio tra performance e benessere psicologico significhi affrontare un tema più che mai attuale, che richiede però di uscire dalle semplificazioni. Un primo elemento da considerare è quello generazionale: le aspettative, i bisogni e i riferimenti valoriali sono cambiati molto, soprattutto con l’ingresso nel mondo del lavoro delle nuove generazioni e con l’accelerazione impressa dal periodo post-Covid. La possibilità di lavorare da remoto, ad esempio, ha messo in discussione vecchi modelli legati alla presenza fisica, al controllo e alla linearità dei processi.
Credo che performance e benessere non siano in opposizione, ma vadano ripensati come elementi interdipendenti. Spesso ci portiamo dietro l’immagine della “persona ad alte performance” come figura iperattiva, sempre operativa, stressata e poco equilibrata. Ma nella realtà, la performance sostenibile nasce dalla capacità di lavorare in un contesto che valorizza la persona, che dà strumenti chiari, feedback costanti, obiettivi trasparenti e un clima di fiducia. Quando queste condizioni mancano, anche il talento migliore finisce per non esprimersi appieno.
Il benessere, poi, non è solo una questione di benefit o orari flessibili: è anche un tema culturale e relazionale. Nelle esperienze che ho vissuto, le iniziative che hanno funzionato meglio sono quelle che creano spazi di comunicazione autentica: non solo i classici momenti di team building, ma contesti in cui le persone possono parlare, confrontarsi, sentirsi parte di qualcosa. A volte, anche solo avere uno spazio informale per chiedere o dare un feedback può fare una differenza enorme.
Infine, ci sono ruoli e settori dove il bilanciamento è ancora più cruciale: penso al mondo della consulenza, dove essere tecnicamente preparati non basta. Serve empatia, gestione delle relazioni, comprensione delle dinamiche interne ed esterne. Qui il benessere non è solo un tema etico, ma un fattore abilitante della performance stessa.
Il mondo della talent acquisition è già cambiato molto rispetto a quando ho iniziato a lavorarci, e sono convinto che la trasformazione sia solo all’inizio. Vedo due ordini di cambiamento: quelli che possiamo già mettere in pratica oggi, e quelli più di lungo periodo, legati a macro-trend tecnologici e culturali.
Sul primo fronte, uno dei punti chiave è trovare un equilibrio tra automazione e tocco umano. C’è un valore concreto nell’eliminare attività ripetitive a basso impatto, come alcune fasi di screening, comunicazioni di base o gestione della pipeline, ma è facile cadere nella trappola dell’automatizzazione selvaggia, perdendo di vista l’esperienza del candidato e la qualità delle decisioni.
Tra i trend più interessanti vedo lo screening algoritmico intelligente, in cui i sistemi aiutano il recruiter a focalizzarsi sui profili più promettenti, senza sostituirsi al giudizio umano. Così come immagino un futuro prossimo dove strumenti come la trascrizione automatica dei colloqui e l’estrazione di schede valutative in tempo reale possano liberare tempo per l’ascolto attivo. Perfino l’analisi dei segnali non verbali, oggi controversa, potrebbe avere spazio, purché usata in modo etico e consapevole.
Per quanto riguarda l’attraction, vedo un passaggio netto dai canali tradizionali a spazi più dinamici e autentici. In Italia siamo ancora indietro su strumenti come Glassdoor, e LinkedIn è spesso l’unico punto di visibilità. Stiamo esplorando strumenti più “social”, come Instagram o persino TikTok, ma credo che la vera differenza la facciano le persone. Le nuove generazioni vogliono capire “chi lavora in quell’azienda”, non solo “cosa si fa”. Dare visibilità a volti, storie, esperienze vere, anche in chiave bottom-up, è oggi uno degli strumenti più forti per attrarre e trattenere i talenti.
Intervista a cura del Team di Joinrs