Joinrs è la job board potenziata dall'intelligenza artificiale, progettata per connettere candidati GenZ -studenti universitari e laureati con pochi anni di esperienza lavorativa- con le aziende più compatibili. Grazie alla nostra AI, supportiamo sia i job seeker che i recruiter nell'identificare le migliori opportunità, rendendo il processo di selezione più rapido ed efficiente e riducendo lo sforzo richiesto. Solo le candidature più allineate ai requisiti arrivano ai recruiter, garantendo qualità e precisione.
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Per conoscere il mondo Risorse Umane. Per chiacchierare e rubare qualche segreto del mestiere a professionisti che hanno da raccontare. Per lasciarvi ispirare. La raccolta di interviste di Joinrs a chi lavora in ambito HR nasce con questi tre obiettivi: ci auguriamo che nelle loro storie possiate trovare i consigli che cercate e la determinazione per iniziare (o proseguire) nella costruzione dei vostri obiettivi professionali. Oggi è Lucia a condividerci il suo percorso e consigli!
Il mio percorso professionale è stato una costante esplorazione, dove ogni tappa ha aperto nuovi orizzonti e nuove sfide. Non è stato solo un percorso di crescita, ma una continua trasformazione del mio sguardo sul mondo HR.
Sono partita nel mondo IT con SCAI, dove per oltre un anno ho vissuto la selezione tech a 360°, imparando a conoscere profili che spaziano dal sistemista al Project Manager. È stata una palestra intensa, dove ho allenato l’ascolto e la capacità di comprendere ruoli molto diversi tra loro.
Poi è arrivata l’opportunità interna di spostarmi nel ruolo di HR Generalist, sempre in una società del gruppo, dedicata al mondo bancario e assicurativo. Lì ho potuto vivere il ruolo HR nella sua interezza, dall’onboarding all’offboarding, passando per la gestione quotidiana delle persone e di tutto ciò che ne concerneva. È stato il momento in cui ho compreso quanto ogni decisione HR abbia un impatto reale sulla vita professionale delle persone. Infine, con l’acquisizione di SCAI da parte di Deda, ho avuto la possibilità di tornare al mio primo ruolo, la Talent Acquisition, ma con uno sguardo diverso, più ampio e strategico. È stato come arrivare a un nuovo plateau della montagna dove la vista è più chiara, le competenze più solide e la passione ancora più forte.
Per me, fare Talent Acquisition non è mai stato un semplice esercizio di matching tra CV e Opportunità. È un atto importante che costruisce ponti tra il potenziale delle persone e le sfide giuste per farlo emergere.
Il mio punto di partenza è sempre l’ascolto attivo. Dietro ogni profilo c’è molto più di un elenco di competenze, c’è una storia e un’energia che merita di essere compresa. Gli strumenti digitali (LinkedIn Recruiter, ATS, community tech) sono fondamentali, ma non bastano. La vera differenza la fa il tempo che dedico a capire chi ho davanti: cosa lo motiva, cosa cerca davvero, quale impatto vuole generare e che valore possiamo costruire insieme. Questa attenzione l’ho affinata sul campo, confrontandomi con profili rari e specializzati, che non rispondono agli annunci, ma si attivano solo quando percepiscono autenticità e rispetto. È lì che ho imparato che il vero recruiting è una relazione a cui va dato del valore e che raccontare l’azienda non significa elencare benefit, ma trasmettere una cultura, una direzione, un luogo dove quella persona può crescere.
La pandemia ha segnato un punto di svolta nel modo in cui le nuove generazioni vivono il lavoro. Oggi, più che mai, vedo giovani che non cercano semplicemente un impiego, ma un progetto di vita. Vogliono crescere, sì, ma in modo autentico, coerente con i propri valori e con la propria identità.
La progettualità lavorativa non è più lineare: è fluida, modulare, costruita attraverso esperienze diverse e ruoli che si trasformano. I giovani scelgono aziende che sappiano offrire flessibilità, inclusione e percorsi di crescita personalizzabili non solo verticali, ma anche orizzontali, trasversali, capaci di valorizzare talenti in modo dinamico.
Questa evoluzione non è solo qualcosa che osservo ma l’ho vissuta in prima persona. E oggi, il mio ruolo, mi permette di entrare in sintonia con chi cerca una nuova opportunità. Capire le motivazioni profonde, intercettare il desiderio di impatto, e costruire insieme un percorso che non sia solo professionale, ma anche umano.
Il “quiet quitting” secondo me può essere letto in duplice chiave. Da un lato è un segnale di disconnessione emotiva dal lavoro che spesso arriva quando le persone non vedono più un senso o una prospettiva di crescita. È una forma di distacco silenzioso, che non implica l’abbandono del posto di lavoro, ma una riduzione dell’investimento emotivo e dell’impegno oltre il minimo richiesto.
Dall’altro lato rappresenta una scelta consapevole, necessaria per tutelare la propria salute mentale e ristabilire un equilibrio tra vita privata e professionale. È un modo per rimettere al centro il proprio benessere, senza uscire dal contesto lavorativo.
Dal punto di vista HR, serve un ascolto autentico, percorsi di sviluppo personalizzati e una cultura aziendale che faccia sentire ogni persona parte di un progetto più grande.
Le organizzazioni che vogliono aumentare l’engagement, e con esso la produttività, devono investire in una cultura del dialogo continuo, dove il feedback non è un momento isolato, ma un’abitudine. Se letto con attenzione, il quiet quitting può trasformarsi in un’opportunità, un’occasione per ripensare i modelli organizzativi, rafforzare la fiducia reciproca e far evolvere la cultura aziendale verso paradigmi più sostenibili, inclusivi e umani.
Intervista a cura del Team di Joinrs