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Joinrs con Alessandro, Recruiter in Amazon

Sticker_Emozionata-1  Chi è Joinrs?  

Joinrs è la job board potenziata dall'intelligenza artificiale, progettata per connettere candidati GenZ -studenti universitari e laureati con pochi anni di esperienza lavorativa- con le aziende più compatibili. Grazie alla nostra AI, supportiamo sia i job seeker che i recruiter nell'identificare le migliori opportunità, rendendo il processo di selezione più rapido ed efficiente e riducendo lo sforzo richiesto. Solo le candidature più allineate ai requisiti arrivano ai recruiter, garantendo qualità e precisione.

Oggi, più di 300 aziende ci hanno scelto per potenziare la loro talent attraction, beneficiando anche delle nostre attività mirate all'employer branding, il tutto all'interno della nostra community di quasi 1 milione di utenti. Se sei un’azienda e vuoi saperne di più, clicca qui.

  Raccontando il mondo HR  Sticker_Determinata

Per conoscere il mondo Risorse Umane. Per chiacchierare e rubare qualche segreto del mestiere a professionisti che hanno da raccontare. Per lasciarvi ispirare. La raccolta di interviste di Joinrs a chi lavora in ambito HR nasce con questi tre obiettivi: ci auguriamo che nelle loro storie possiate trovare i consigli che cercate e la determinazione per iniziare (o proseguire) nella costruzione dei vostri obiettivi professionali. Oggi è Alessandro a condividerci il suo percorso e consigli!

"L'esperienza internazionale ha ampliato i miei orizzonti, rendendomi più empatico, flessibile e consapevole delle diverse realtà culturali, essenziali per attrarre e gestire talenti in modo autentico e inclusivo"
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Alessandro Grossi

Recruiter

1) Hai vissuto e lavorato in molti Paesi diversi. Quanto ha inciso questa dimensione internazionale nel tuo modo di approcciare il recruiting e la gestione dei talenti?

Lavorare all’estero in contesti internazionali ha avuto, e continua ad avere,  un impatto profondo sul mio modo di lavorare. Mi ha permesso di imparare il mestiere direttamente in inglese, con una prospettiva globale fin da subito. Questo ha ampliato i miei orizzonti, non solo dal punto di vista operativo, ma anche culturale: ho avuto l’opportunità di confrontarmi con professionisti del settore provenienti da paesi e background molto diversi, sviluppando una maggiore consapevolezza dei contesti socio-politici in cui le aziende e i talenti si muovono.

Nel recruiting, conoscere culture diverse mi aiuta a leggere meglio le persone. Ho imparato che esistono diversi modi di comunicare, e che spesso è più importante il contenuto del messaggio rispetto alla sua forma. Per questo, quando valuto un candidato, cerco di andare oltre lo stile comunicativo per concentrarmi davvero sul percorso, sulle competenze e sul potenziale. Lavorare ogni giorno in un contesto internazionale mi ha anche insegnato a comunicare in modo più inclusivo, neutrale ed equo. Aspetti fondamentali se si vuole attrarre talento a livello globale.

In generale, l’esperienza internazionale mi ha reso più empatico e flessibile. Ho capito che non esiste un’unica idea di successo: alcune persone danno valore alla mission dell’azienda, altre sono spinte dalle opportunità di crescita, di apprendimento o dal desiderio di avere un impatto sociale. Adattare il mio approccio in base all’interlocutore mi permette di costruire relazioni più autentiche e di ottenere risultati migliori, sia in termini di engagement che di performance.

 

2) Cosa significa per te adottare un approccio data-driven nella selezione? In che modo usi concretamente i dati per migliorare le strategie di recruiting?

Secondo me, adottare un approccio data-driven nella selezione significa trasformare l’esperienza e le intuizioni maturate sul campo in evidenze concrete. I dati mi permettono di dare forza e credibilità alle mie valutazioni, rendendole più facilmente comprensibili e condivisibili anche per gli stakeholder interni.

Ogni fase del processo di selezione genera informazioni utili, ma non sempre ci si ferma ad analizzarle. Per esempio, un trend negativo nei colloqui, una diminuzione della qualità dei candidati che si candidano o un feedback ricorrente da parte dei manager sono segnali che raccolgo e trasformo in azioni concrete.

Io monitoro il tasso di conversione da uno step all’altro, traccio il numero di candidati che si ritirano (e cerco di capire il perché), calcolo le ore di colloquio necessarie per chiudere una posizione, analizzo l’attività di sourcing, raccolgo feedback strutturati dai candidati e tengo traccia delle performance dei candidati appartenenti a categorie di diversity. Questi dati mi aiutano a pianificare meglio, risparmiare tempo e risorse, e costruire strategie di selezione più efficaci.

Ma essere data-driven, per me, non è solo una questione di numeri. Significa anche dare valore al tempo di tutti, rendere i colloqui più mirati e costruire un processo più equo e trasparente, in cui si possa davvero trovare il miglior match tra azienda e candidato.

 

3) In AWS hai gestito assunzioni su larga scala in contesti molto diversi tra loro. Quali sono le principali sfide del recruiting ad alto volume?

La principale sfida nel recruiting ad alto volume è garantire un processo equo, fluido e scalabile, senza compromettere la qualità per i candidati.

Una delle difficoltà più frequenti è assicurare una copertura completa delle interviste, per riuscire a far combaciare le disponibilità dei vari interlocutori organizziamo giornate intere di colloqui in blocco. È altrettanto fondamentale garantire coerenza nei criteri di valutazione, il livello di preparazione e di esperienza degli intervistatori deve essere allineato, così da assicurare un metro di giudizio comune e risultati affidabili.

Un’altra leva importante è la calibrazione costante della pipeline. Rivedo la pipeline settimanalmente per evitare sia l’overhiring sia il rischio di avere pochi candidati pronti per i colloqui, ottimizzando così anche il supporto richiesto al team.

Secondo me, quando si gestiscono decine di colloqui contemporaneamente, non si può improvvisare. Prima ancora di iniziare, è essenziale definire un processo chiaro, assegnare ruoli precisi e garantire che ogni attore (recruiter, coordinatori, hiring manager, intervistatori) abbia tutte le informazioni e gli strumenti necessari per contribuire in modo efficace. Attraverso template, training, documenti che spiegano il processo passo a passo.

Tutti devono essere allineati su tempi, criteri e priorità. Questo permette di evitare inefficienze, garantire una buona esperienza al candidato e raggiungere gli obiettivi nei tempi previsti.

 

4) Nel tuo ruolo attuale ti occupi di early careers a livello EMEA: che consigli daresti oggi ai giovani per farsi notare in un processo di selezione? Cosa cercano le aziende in loro?

Ai giovani che partecipano a processi di selezione, dico sempre che la chiave per farsi notare è avere un mindset di crescita e curiosità. Le aziende non cercano solo il talento o un voto alto, ma persone disposte a mettersi in gioco, imparare dagli errori e adattarsi ai cambiamenti.

È importante raccontare il proprio percorso con onestà, evidenziando come si è affrontata una sfida o come si è collaborato in gruppo. Le soft skill fanno spesso la differenza, soprattutto in contesti internazionali e dinamici come quelli in cui opero.

Un altro aspetto cruciale è la preparazione, consiglio sempre di informarsi bene sull’azienda. Capire cosa fa, quali sono i suoi valori, la posizione nel mercato e le sfide che affronta aiuta a costruire un dialogo più consapevole e a fare domande pertinenti durante il colloquio. Dimostrare di conoscere il contesto interno ed esterno dell’organizzazione lascia sempre un’ottima impressione. Per i profili tecnici, suggerisco di prepararsi anche sul piano più pratico: è utile rivedere i concetti chiave, informarsi sul linguaggio tecnico richiesto e, se possibile, chiedere in anticipo informazioni sulla struttura del processo o delle prove tecniche.

Infine, consiglio di investire nel networking con professionisti del settore.

 

Sticker_InCerca Un consiglio in più

Nel mio caso specifico, il programma Erasmus è stato un punto di svolta. Non avevo mai lasciato Milano prima, e trovarmi a vivere all’estero per la prima volta mi ha letteralmente aperto gli occhi. Stare lontano da casa mi ha spinto a mettere in discussione abitudini e convinzioni, ad aprirmi a nuovi punti di vista, a imparare a convivere con la diversità.

È in quel periodo che ho imparato davvero l’inglese, una competenza che ha poi rappresentato la chiave d’accesso a moltissime opportunità, sia professionali che personali. Ovviamente non è stato tutto semplice o immediato: ho investito tempo ed energie, mi sono “forzato” a parlare con persone di culture diverse anche quando non capivo tutto, pur di imparare a comunicare.

Senza accorgermene e divertendomi, quell’esperienza ha segnato il mio modo di vivere e di lavorare. Oggi porto con me questo approccio in tutto ciò che faccio, soprattutto quando lavoro in contesti multiculturali.

 

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Intervista a cura del Team di Joinrs