Passa al contenuto

Joinrs con Simone, Country HR Head of Italy & Senior Business Partner Development Europe in Lendlease

Sticker_Emozionata-1  Chi è Joinrs?  

Joinrs è la job board potenziata dall'intelligenza artificiale, progettata per connettere candidati GenZ -studenti universitari e laureati con pochi anni di esperienza lavorativa- con le aziende più compatibili. Grazie alla nostra AI, supportiamo sia i job seeker che i recruiter nell'identificare le migliori opportunità, rendendo il processo di selezione più rapido ed efficiente e riducendo lo sforzo richiesto. Solo le candidature più allineate ai requisiti arrivano ai recruiter, garantendo qualità e precisione.

Oggi, più di 300 aziende ci hanno scelto per potenziare la loro talent attraction, beneficiando anche delle nostre attività mirate all'employer branding, il tutto all'interno della nostra community di quasi 1 milione di utenti. Se sei un’azienda e vuoi saperne di più, clicca qui.

 

  Raccontando il mondo HR  Sticker_Determinata

Per conoscere il mondo Risorse Umane. Per chiacchierare e rubare qualche segreto del mestiere a professionisti che hanno da raccontare. Per lasciarvi ispirare. La raccolta di interviste di Joinrs a chi lavora in ambito HR nasce con questi tre obiettivi: ci auguriamo che nelle loro storie possiate trovare i consigli che cercate e la determinazione per iniziare (o proseguire) nella costruzione dei vostri più obiettivi professionali. Oggi è Simone a condividerci il suo percorso e consigli!

 

"Ogni nuova esperienza è una sintesi di quelle precedenti: crescere professionalmente significa saper cambiare prospettiva, valorizzare le diversità e non smettere mai di imparare"
CHIECO_SIMONE_19

Simone Chieco

Country HR Head of Italy & Senior Business Partner Development Europe 

1) Ci sono esperienze particolari nella tua carriera che consideri fondamentali per la tua crescita professionale?

Sì, ce ne sono diverse. Non direi che ci sono solo momenti singoli fondamentali, piuttosto che ogni nuova esperienza è stata una somma di quelle precedenti. Anche tornare a ricoprire un ruolo simile (in stabilimento o in un headquarter) svolto anni prima ma in un contesto diverso e con maggiore esperienza alle spalle mi ha fatto interpretare quel ruolo in modo diverso, più ricco. Mi piace immaginare ogni nuovo incarico o esperienza professionale come una sintesi del mio percorso sino a quel momento, comprese le svolte che mi hanno fatto crescere.

Ad esempio, il periodo in cui ho lavorato nello Studio Legale Metta a Bari o in Avio a Brindisi (oggi AvioAero) sono stati fondamentali per acquisire disciplina e un’alta e solida qualità tecnica. Ero all’inizio perciò ogni giornata per quanto intensa ed impegnativa è stata come una sorta di Master pratico o apprendistato, dove mentre fornivo il mio contributo, sentivo di esser “pagato per imparare”. Quel periodo mi ha consentito di aggiungere degli strumenti molto tecnici al mio bagaglio, e la consapevolezza e sicurezza di gestire contesti con aspettative molto elevate.

Un altro momento di svolta è stato quando General Electric (GE) ha acquisito lo stabilimento Avio per cui lavoravo, costituendo l’AvioAero. Inizialmente ero scettico verso alcune delle politiche che venivano proposte dalla nuova proprietà: provenendo da una cultura aziendale molto forte che aveva sperimentato alcune di queste politiche negli anni precedenti – ma pur sempre in contesti diversi - ho fatto fatica a disancorarmi dal modo di lavorare cui ero abituato, e questo è stato parte della mia crescita. Solo quando mi sono trasferito a Milano in un altro business di GE, ho potuto constatare l’efficacia di alcune di quelle politiche in un business che già le utilizzava da anni. Mi sono reso conto di quanto sia importante saper cambiare prospettiva, e per farlo mi sono buttato a capofitto nella qualifica dell’azienda come Great Place To Work, certificazione ottenuta quell’anno. Per raggiungere questo traguardo era fondamentale metter il lavoratore al centro come persona, non essere un HR percepito come distante o burocratico, ma come un supporto concreto per i colleghi. Questo cambiamento di visione è stato decisivo per il mio modo di lavorare, che da quel momento in poi è stata un’evoluzione, a diversi livelli, della competenza tecnica ed human touch appresi in questi contesti

 

2) Nella tua esperienza hai gestito team e progetti su cinque continenti. Quali sono stati i principali ostacoli e le lezioni apprese nel coordinare persone di culture e background diversi?

Gestire e lavorare con team distribuiti su cinque continenti è un’esperienza arricchente e complessa. Una delle principali sfide è stata sicuramente la comunicazione: 

E’ difficile spiegarsi su questo tema senza rischiare di generalizzare, ma in base alla mia esperienza non si tratta solo della lingua, ma del diverso modo di relazionarsi, e che impatta il “come” le informazioni vengono trasmesse e recepite. Ad esempio in UK le persone sono abituate a una comunicazione più  – come dire – “educata” e meno diretta, ma soprattutto concisa, quest’ultima circostanza comune anche ad alcuni livelli organizzativi più alti; passando da una telefonata all’altra cambiando nazione ad es. est-europeo si aveva la percezione di una comunicazione più diretta, agli occhi di un inglese più rude ma era solo il diverso approccio culturale e comunicativo. Ho dovuto imparare a decifrare segnali e differenze culturali per evitare incomprensioni e fraintendimenti.

Un altro aspetto critico riguarda la gestione delle aspettative. In alcune nazioni le organizzazioni fondano su relazioni più gerarchiche: i dipendenti si aspettano direttive chiare e definitive da parte del management ed il margine di libertà associato può essere più o meno ristretto. Lavorando con aziende di cultura anglosassone ho avuto modo di osservare, seppur con differenze tra Stati Uniti, UK e Australia, un approccio più partecipativo, dove le decisioni vengono prese insieme, ma anche una maggior propensione al concedere margini di rischio ed errore a persone anche più junior, di stimolo alla crescita ed alla responsabilizzazione. Adattare il mio stile di leadership in base alla cultura locale è stata una delle lezioni più preziose.

La gestione del tempo è un altro tema delicato. Ci sono culture, forse anche accentuate dal tipo di ruolo più di progetto che stavo vivendo, in cui mi accorgevo che rispettare le scadenze era decisamente prioritario, seppur ho potuto notare da contesto a contesto la diversa attenzione alla “scadenza” in situazioni, settori di business e culture dove  il mantenimento di buone relazioni fosse altrettanto prioritario. In alcune situazioni mi sono trovato a dover bilanciare queste due prospettive, cercando di mantenere l’obiettivo senza compromettere i rapporti personali. Ho imparato che in ogni situazione di conflitto dobbiamo tenere al centro la relazione e domandarci quale valore vogliamo darne durante una discussione; evitare perciò uscite emotive o “passionali” che possono mettere a repentaglio una relazione lavorativa o professionale in genere, o diversamente, farlo coscientemente come frutto di una decisione. 

Infine, altro punto e logicamente collegato a quelli precedenti è appunto la gestione della diversità in senso ampio: di vedute, di genere, di età, culturale, fisica, etc. La diversità comporta sfide ma anche enormi opportunità. Non c’è un unico modello di lavoro. Ogni cultura ha punti di forza che, se valorizzati, possono arricchire il team. 

La chiave per gestire team globali è costruire fiducia verso modi diversi di lavorare ed un’apertura a risultati a volte diversi da quelli sperati, ma pur sempre il meglio di quanto raggiungibile e con la consapevolezza di non essersi fermati dinanzi agli ostacoli, ma aver pensato a soluzioni alternative e più calzanti. Questo richiede ascolto attivo, rispetto delle differenze e la capacità di trovare un linguaggio comune Alla fine, è proprio l’abilità di integrare ed interagire con prospettive diverse che porta a risultati straordinari. Soprattutto è fondamentale tenersi vicini coloro che hanno un’opinione diversa dalla tua e non temono di esprimerla.

 

3) Quali sono, secondo te, i principali pro e contro di svolgere esperienze all'estero, in particolare negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Australia?

Lavorare con team sparsi in diversi Paesi può essere molto stimolante, ma ci sono delle differenze importanti da considerare. Da una parte, c’è il coordinamento di un gruppo di persone basate all’estero che risponde direttamente a te quale loro manager; dall’altra, c’è la collaborazione con team che non dipendono gerarchicamente da te, ma con cui lavori, il cosiddetto “client group”,i ti team di cui sei business partner distribuiti tra i vari Paesi e a cui fornisci supporto e aiuto a raggiungere i loro obiettivi.

Nel secondo caso, una delle parti più divertenti è vedere come si può creare una sana competizione tra i vari team. Per esempio: “In Polonia hanno risolto questo problema, perché in Austria non ci riuscite anche voi?” O ancora: “In Spagna hanno implementato questa soluzione, e hanno regole simili alle nostre. Perché non lo facciamo anche noi?”. Questi confronti, utili se sfidanti e virtuosi, possono spingere i team a migliorare, creando una sorta di sfida positiva interrogandosi e valorizzando le differenze culturali.

Ovviamente, le differenze non riguardano solo la cultura, ma anche le regole. Alcuni Paesi, ad esempio, sono più avanti su certe normative, altri semplicemente hanno un diverso sistema di regole.

Ciò offre l’opportunità di riconsiderare le nostre buone pratiche, del nostro incredibile sistema di Welfare e dell’importanza di certi strumenti – in UK o USA del TFR, della tredicesima, del congedo matrimoniale o della pensione pubblica ai livelli Italiani (se ci arriveremo!), etc., non sanno neanche l’esistenza. Per certi versi ancora l’Australia, geograficamente più distante, ha regole più vicine a quelle Europee continentali. 

Si ha d’altro canto anche l’opportunità d’importare idee e politiche per noi tutto sommato nuove o innovative, introducendo cambiamenti non solo in azienda, ma anche nella cultura lavorativa del nostro Paese. L’Inghilterra ad esempio ha introdotto ad aprile 2024 una regolamentazione sul remote o hybrid working (il nostro smart working) dove il datore di lavoro è obbligato a considerare le richieste di lavoro da remoto dei propri collaboratori e può rifiutare solo dinanzi a 8 specifici casi, che dovrà pure motivare. In Italia, una legge del genere non c’è ancora, ed il dibattito – invero molto complesso – sul lavoro in remoto non sembra neanche cominciato, con situazioni in cui spesso le aziende hanno, nel bene o nel male, più libertà di azione. E’ indubbio che se a seguito di una condizione (seppur temporanea) di full remote, una famiglia abbia deciso di trasferirsi altrove per stare più vicino ai propri cari, o per sostenere costi più bassi, o per mera qualità della vita, e poi la stessa azienda richieda di tornare in ufficio a lavorare in presenza quella famiglia sarà in forte difficoltà, costringendo certamente alcuni a considerare le dimissioni. Ecco, il coraggio di regolare questo settore, quando assente una normativa nazionale, dev’essere dell’azienda e qui l’HR ha un ruolo fondamentale.

Anche il modo di relazionarsi cambia molto tra un Paese e l’altro. Nei contesti anglosassoni, per esempio, i rapporti con i lavoratori possono apparire meno gerarchici e meno direttivi. È normale che una persona dica apertamente: “Non mi sento a mio agio con questo” o “Non trovo ragionevole quest’altro”. È qualcosa che viene accettato senza insistenze. In Italia, invece, c’è più passione e coinvolgimento ed è un approccio che può risultare invadente per chi non ne è abituato.

In definitiva, lavorare fuori per – si fa per dire - “tornare profeta in patria”, è un’esperienza che consiglio vivamente perché apre la mente. Non ho avuto la possibilità di fare un Erasmus, ma sono convinto che, alle volte, una buona esperienza all’estero e conoscere una nuova lingua, valgono nel mondo del lavoro (e nella vita personale) almeno quanto una laurea.

 

4) Quali consigli daresti a chi sta iniziando una carriera nel campo delle risorse umane?

Il primo consiglio è essere curiosi e mai smettere di imparare. Non temere di essere diverso, ma imparare a connettersi con gli altri senza andare necessariamente a rottura. Sono convinto che il mondo delle Risorse Umane non è e non debba essere conservativo e burocratico, ma  un campo in continua evoluzione, e chi lavora in questo settore deve saper combinare competenze tecniche con un forte orientamento alle persone, mostrare di averne cura e cimentarsi nella ricerca di soluzioni che realmente sono in grado di valorizzarle o di toglier loro un problema.

La maggior parte delle volte lo si fa con l’aiuto dei loro people manager, che bisogna supportare nel loro lavoro di gestione di team. Tanto più bravi saranno i people manager, quanto meno servirà il ruolo dell’HR in azienda. Per questo, in verità, i people manager vanno anche scelti come si deve e misurati nel loro ruolo di team leader.

I mestieri nell’ambito risorse umane non sono solo policy o contratti o formazione o payroll: sono soprattutto strategia organizzativa - che tradotto significa - massimizzare il sistema di relazioni professionali tra le persone in un’organizzazione complessa. Bisogna saper ascoltare, capire le diverse esigenze e trovare costantemente le soluzioni più efficaci o creative per migliorare la circolazione delle informazioni e l’esperienza lavorativa in sè. Questo approccio fa davvero la differenza.

 

Sticker_Sognante

Intervista a cura del Team di Joinrs